Introduzione di don Luca Ferrari ai "Pensieri Notturni" di Umberto - esercizi spirituali a Sacrofano, anno 2018

Il testamento di Umberto

Tra gli amici che ci hanno salutato in questi anni, desidero oggi proporne alla vostra attenzione uno, a me particolarmente carissimo.

È un figlio: non ha infatti conosciuto don Pietro se non attraverso di noi e le parole che gli sono state trasmesse. È un fratello (“un fratello più che di sangue”, come diceva lui): ha scelto di condividere, di corrispondere alla chiamata comunitaria, assieme alla sua sposa, Chiara. Nello stesso tempo è anche un padre del nostro movimento, perché ha avviato in questi anni il percorso del Movimento Giovani, che ha guidato fino alla sua morte: una realtà che continua a raccogliere ed educare tanti ragazzi, che trovano nel carisma di don Pietro e nel movimento “Familiaris Consortio” un alimento prezioso per la loro crescita ed una proposta concreta di vita.

Non voglio qui anticiparvi il contenuto di quello che ascolteremo, ma soltanto il contesto da cui è uscito questo, che io considero un vero testamento spirituale. Non ce lo siamo mai detti, ma mi sembra che fosse abbastanza evidente la natura di questi pensieri. Erano nati così: nelle lunghe notti insonni che hanno caratterizzato il tempo della malattia di Umberto Roversi, Chiara gli ha proposto di scrivere quello che il Signore gli suggeriva nella preghiera, in un periodo di grandissima effervescenza spirituale e di grande maturazione. Don Pietro Adani poi gli ha chiesto di tenere una meditazione agli esercizi spirituali della Comunità Sacerdotale di quest’anno. E alcune comunità di famiglie, avendo saputo di questo suo intervento da noi sacerdoti molto, molto apprezzato, hanno richiesto di condividere anche con loro questi pensieri, che poi sono stati perfezionati e adattati al destinatario, cioè alla comunità di famiglie che glielo chiedeva.

Voglio solo introdurre con poche annotazioni: il punto di vista dal quale questi pensieri sono stati elaborati, è un punto di vista privilegiato, quello di chi vede la vita dal confine. L’ho già ripetuto tante volte: ogni volta che papa Francesco parla di vedere il mondo a partire dalle periferie, a me viene in mente proprio l’importanza, per vivere in pieno ciò che stiamo vivendo, di guardarlo dal punto di vista del suo compimento. Non serve una concentrazione estrema su quello che stiamo facendo, con l’ossessione di fare bene materialmente o tecnicamente quello che ci è chiesto. Ma piuttosto dobbiamo essere capaci di valutarne il senso complessivo, e quindi anche il peso specifico.

Quante cose, riguardando indietro, si riproporzionano: ad alcune abbiamo dato troppo peso, come abbiamo ascoltato anche da don Pietro ieri sera, ad altre troppo poco. Questa è una esperienza che indubbiamente ha caratterizzato gli ultimi mesi della vita di Umberto: portandolo a una grande e lucida essenzialità sul senso della vita. Consapevole. Sempre di più, lo abbiamo già ascoltato in questi mesi, si sentiva sospeso tra Dio e l’abisso, tra il tutto e il nulla[1].

La prima meditazione di stamattina ci può aiutare a penetrare meglio il senso di quello che sto dicendo: Dio stesso può diventare un idolo, quando noi ci limitiamo a considerare solo un “qualcosa” di Dio. Magari quello che Lui può ottenere a noi: è vero che Dio ascolta le nostre preghiere e che le può esaudire, ma questo è solo un aspetto. Quindi può esserci un rapporto con Dio molto standardizzato, molto fissato su alcune caratteristiche di Dio che lo rendono un idolo per noi. Per cui questo non è il rapporto con Dio: è il rapporto con ciò che noi vogliamo attribuire a Dio, limitandolo nelle nostre attese, nelle nostre pretese, nelle nostre aspirazioni, delusioni, ecc.

Quando la vita, come è successo per Umberto, diventa così sottile, diventa anche tanto profonda e si pone realmente di fronte a Dio come interlocutore. Perciò non ci preoccupa tanto un “qualcosa”. Lo dico pensando a ciò che riempiva il cuore e la mente di Umberto in quei giorni. Un atteggiamento profondamente diverso da quello con cui oggi spesso si trasforma la cura del proprio corpo in un vero idolo, fino a sentirsi bene e realizzati solo se si ha il ventre piatto. Ma così quanto ci si può sentire bene? E per quanto? Pensiamo anche a quanti sacrifici oggi la gente compie per stare in salute, per fare carriera, per avere una casa bella. Persino le attenzioni e il tempo dedicato al marito, alla moglie, ai figli possono diventare eccessivi, quando ci si chiude in una dimensione molto ristretta, in cui si pensa di dare qualche cosa semplicemente attraverso una prestazione che ci assorbe totalmente.

Quando si giunge al limitare della vita, di tutte queste cose si viene svestiti. Anche di tante cose giustamente e profondamente amate. Tutto questo ci porta e ci rimanda a una relazione decisiva di libertà, nella quale tutto può essere ritrovato, anzi veramente trovato. Una relazione creativa, e quindi generativa, in cui il tuo “sì” determina la storia insieme a Dio. E una fecondità che ti rende profondamente libero nella fede.

Pensiamo come questa sia proprio la caratteristica tanto riconosciuta, apprezzata e amata dalla Chiesa in Maria: feconda per la sua fede. La verginità vissuta come espressione della integrità della fede: quel Figlio non è semplicemente frutto di qualche cosa di limitato, di un atto, di una relazione, di un sentimento, ma è frutto della fede attraverso la quale, in Dio, Maria ha generato. Pensate a quando diciamo che Gesù, fin dall’inizio della storia della Chiesa, è riconosciuto come figlio di Dio e di Maria. Maria non ha la stessa natura di Dio: è una creatura, che dobbiamo riconoscere dalla nostra stessa parte: eppure Lei, una creatura umile, è posta sullo stesso piano di Dio nella generazione del Figlio. Questo principio vale anche per ciascuno di noi, che siamo chiamati a generare con Dio.

A questo ci fa pensare l’epilogo delle riflessioni che Umberto chiama “Pensieri notturni alle comunità”: egli le conclude infatti immergendosi, o meglio riconoscendosi immerso, nei misteri del rosario. Dio ci vuole dunque collaboratori intelligenti della Sua inesauribile fecondità, perché ciascuno di noi è chiamato e mandato a generare un popolo.


[1] Cfr. Don Gigi Lodesani, “Omelia per il trigesimo di Umberto Roversi”, 13 maggio 2018 (LINK).