Ad un vero amico!
Un sacerdote può avere amici? Questo chiedeva, quasi 50 anni fa, don Pietro Margini ai suoi ragazzi. Suonava singolare: allora il sacerdote era molto custodito, distante nel suo ruolo sacrale. Il passaggio ad una forte secolarizzazione è avvenuto in modo improvviso, provocando disorientamenti e non di rado anche disordini. Ad accompagnare il sacerdote erano le famiglie di origine per i preti diocesani o le famiglie religiose per i consacrati. La risposta dei giovani, pur affezionatissimi a don Pietro, fu titubante. La sua fu serenamente limpida: “I sacerdoti devono avere amici, non solo tra i sacerdoti.”
Il mondo è cambiato. A noi chiede la testimonianza di una vita totalmente di Dio e per questo pienamente umana, fatta di ricche e profonde relazioni. Certo ai nostri giorni appare in tutta evidenza quanto l’amicizia vera tra sacerdoti, giovani e famiglie esiga una rigorosa e trasparente ascesi. È facile trasformare l’amicizia in cameratismo o riporre la propria fiducia e confidenza in persone immature che non la sanno custodire e valorizzare. Una cosa è voler bene a tutti, altra è una amicizia che non sia unilaterale, ma diventi reciprocità esigente. Tanto più si desidera essere amici, tanto più occorre vincere ogni forma anche nascosta di egoismo e coltivare l’onestà e la purezza del cuore, la virtù della discrezione e della prudenza e la stima per l’altrui dignità e vocazione.
Se non si è così, l’esperienza acerba di amicizia si può trasformare in disillusione, in ferite profonde, in cinica chiusura. Molti guasti che si verificano nelle famiglie, nei sacerdoti e nei giovani dipendono oggi dalla mancanza di Dio e di una sapienza umana, dimenticata da una modernità che ha travolto ogni buon senso. Qualcuno se ne sta rendendo conto.
Gesù ci ha dato l’esempio: “Vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre ve l’ho fatto conoscere” (Gv. 15,15). Ed è su questa parola che desidero condividere qualche tratto della mia intima, preziosa e insostituibile amicizia con Umbo. È l’amicizia tra un prete e un giovane, poi un fidanzato e uno sposo.
Non è stato tra i primi ragazzi che ho conosciuto nel ministero di Sassuolo, poiché non era della mia parrocchia. Mi è stato presentato da Chiara e da alcuni amici comuni. Sulle prime mi accorgevo che mi studiava attentamente con una certa curiosità e distanza. La stima che la sua ragazza aveva per ciò che stavamo facendo era uno stimolo a cercare un incontro personale. Avvenne, penso su incoraggiamento di Chiara, nel mio studio. Ricordo bene la tempesta di domande e i dubbi che aveva, pur presentati senza quell’arroganza di chi si interroga sulla fede senza voler ascoltare ragioni. Ricordo che gli risposi: “Fai come ti suggerisce la tua coscienza. Ho molta fiducia in te.”
Riporto queste parole, anzitutto perché ritengo siano tra quelle che il Signore ispira ad un sacerdote, perciò non le ritengo semplicemente mie. Poi perché sono state la chiave di tutto il nostro rapporto, fatto di stima ed affetto sempre crescenti fino ad oggi. Ancora sento la sua voce e ricorro ai suoi consigli. Non nascondo che spesso mi confido con lui e mi affido alla sua amicizia.
Cosa è accaduto in questi anni è difficile riassumerlo. Indubbiamente alla stima iniziale è seguita una corrispondenza di sensibilità e di visione della vita e delle persone che ritengo un dono di Dio. Pur avendo interessi e passioni differenti, abbiamo sperimentato una condivisione grande. All’inizio è stato prevalentemente il consiglio legato alle sue scelte ad offrirci occasioni di incontro. Poi, via via, il confronto assieme a Chiara sul cammino comune, poi le esperienze formative e missionarie condivise, le più disparate. Ci siamo sempre confrontati sui singoli ragazzi, su come riconoscere il bene che c’è in ciascuno e valorizzarlo, su come aiutare e correggere quelli che facevano fatica. L’adolescenza e la giovinezza offrono alla persona il terreno su cui cresce e fruttifica il seme del Regno di Dio.
Mi è piaciuta la libertà con cui Umbo ha affrontato ogni scambio di idee e l’intelligenza con cui sapeva vedere lontano, assieme alla umile fortezza di un vero uomo di fede che in lui è cresciuto fino ad una statura che non avrei immaginato. Così sono arrivate le scelte del fidanzamento e del Matrimonio, della comunità e della sua disponibilità ad avviare un cammino formativo nel Movimento che, negli anni era diventato sempre più la sua casa. Innumerevoli sono state le esperienze condivise: campi, ritiri, feste, riflessioni, viaggi, pellegrinaggi. Quando era lui ad organizzare sapevamo la meticolosa attenzione con cui tutto era predisposto. La passione educativa, “il cuore”, come diceva, fanno la differenza. Desiderava che tutti avessero la possibilità di essere amati ed accolti. La comunità di amici è stata un dono prezioso per la sua famiglia, compimento di un suo cammino nel quale desiderava accompagnare tanti giovani, perché non fossero mai soli, perché avvertissero sempre accanto a sé la presenza del Signore, perché potessero condividere gioie e prove. Per questa ragione una preoccupazione che si è progressivamente affermata è stata quella della vocazione di ciascuno per cui ha infaticabilmente pregato e operato. Assieme alle famiglie della sua comunità, non ha mai dimenticato gli amici di infanzia e della giovinezza. Spesso ne conversavamo, come si fa quando non si vuole lasciar cadere nessun tesoro prezioso: è l’economia della salvezza, l’economia di Dio.
La franchezza del primo incontro non è mai venuta meno, accresciuta da una amicizia, arricchita della condivisione di un’unica vocazione. La scelta sua e di Chiara di abitare a Borzano sono state per me sorprendenti e si sono rivelate occasione di innumerevoli incontri, sempre caratterizzati da una gioia profonda: non ricordo di essere mai uscito dalla sua casa con qualche traccia di amarezza, se non quella causata dal dolore per le sofferenze che non sono mancate. Ciò che ricordo, tuttavia, è la gioia di condividerle sempre, fino in fondo, sentendo come mie le cose che riguardavano la sua famiglia e sapendo che aveva fatto sue le mie numerose responsabilità. Il suo consiglio era diventato per me, come per altri amici sacerdoti, incoraggiante ed illuminante. Era riferimento per tutte le riunioni di Consiglio, sempre stimato per saggezza e mai eccessivo. Ricordo che questo ruolo e familiarità non gli impedì mai di cercare in me, oltre che l’amico, il padre, anche il sacerdote, come descriverò più avanti.
Poi l’arrivo di Simone che è stato una benedizione grandissima. Mi commuove pensare come riuscisse ad estorcergli espressioni così affettuose che il suo pudore non avrebbe manifestato. Il figlio tanto desiderato lo ha sempre riempito di gesti e parole di stima che esprimevano bene anche la nostra: in lui ci siamo riconosciuti. Attraverso quei momenti condivisi, abbiamo potuto esprimergli il bene che gli volevamo, soprattutto quando è arrivata come un fulmine a ciel sereno la notizia circa il suo stato di salute.
Qui è iniziato il suo calvario. Sebbene non si possa facilmente superare la profonda sofferenza che questo ha comportato, senza voler mancare di sensibilità, posso dire che quella strada tutta in salita, lo ha portato alle vette più alte della santità quotidiana. Pur dedicandosi con passione al lavoro finché ha potuto, via via ha voluto impiegare tutto il tempo a disposizione nel giorno e nelle lunghe notti insonni, per la preghiera e la meditazione, accanto a Chiara forte di una grazia speciale di unità, dolcezza e fede.
Gli ultimi mesi sono ben descritti da quanto lui stesso ha donato a quelli che, ininterrottamente, lo visitavano a casa e negli ospedali. Di questo periodo ricordo il fatto che le nostre parole erano diventate via via sempre più essenziali. Si parlava soprattutto della nostra missione educativa e dei testi di don Pietro che andava scoprendo come un immenso patrimonio: mi pareva che ne cogliesse come pochi altri la preziosità. Se ne nutriva in profondità. Bastavano soltanto poche ed essenziali parole, invece, quando mi domandava: “Dobbiamo parlare di me.” Per il resto, riguardo al suo e nostro cammino, molto era affidato agli sguardi. Erano sufficienti a dire più di molte parole, anche nei momenti di travaglio spirituale che pure ci sono stati. Questa, mi pare sia stata la vetta della nostra amicizia: i nostri sguardi.
Desidero concludere con una nota di leggerezza, che tuttavia tanto mi fa bene ricordare: l’unica cosa materiale che Umbo mi ha chiesto è stata una pressata di cacao. Gli avevo detto che a Piacenza avevo trovato una cioccolata che non si poteva chiamare così, perché era al 100% di cacao. Siccome non poteva mangiare zuccheri ormai da molti mesi, avrebbe desiderato assaggiarne un pezzo. Purtroppo, quando andai da lui la volta successiva dovetti deluderlo: “Ti sei ricordato la cioccolata?” Doveva proprio averne desiderio, perché non mi aveva mai fatto una domanda così. Ero passato dal negozio, ma in quel momento era chiuso. Finalmente tornai con la pressata di cacao: era a casa sua, al termine della mattinata con il consiglio del movimento durato 3 ore. L’ha gustata come fosse la cosa più buona della terra!
Il pomeriggio di quello stesso giorno è iniziato il più decisivo tratto di strada, fino alle ultime parole, agli ultimi sguardi, all’ultimo respiro di quella notte. “Desidero che tu sia li, assieme a Chiara quando verrà il momento”. Anche questa volta il Signore lo aveva ascoltato. Ora gli chiedo: “Desidero che tu sia qui, perché la nostra avventura non è conclusa!”
Con amicizia.
Don Luca